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Proverbi agirini

Proverbi - Dissa u proverbiu anticu ca nun sbagghia... - Cap. VIII - Dei tormenti e delle delizie d'amore.

Indice articoli

Cap. IX
Matrimonia e viscuvati do cielu su calati
ovvero
Del Matrimonio. Usanze e rituali.

Non era cosa semplice coronare un sogno d'amore al tempo dei nostri nonni.
Le donne passavano le loro giornate chiuse in casa. Facci nun vista è disiata, si insegnava alle ragazze da marito; cu beni ti vola, 'ncasa ti vena si ammonivano quelle che avessero avuto qualche smania di mettersi in mostra o, peggio, cosa inusitata e assai disdicevole, di prendere iniziative.
Per due giovani che volevano fidanzarsi praticamente non esisteva nessuna possibilità di incontrarsi e istaurare un rapporto, anche solamente verbale, prima che il matrimonio venisse affermato.
I primi tentativi d'approccio e di dialogo si riducevano di solito ad una serie di sguardi, fugaci e furtivi, che l'uomo cominciava con l'inviare all'indirizzo della prescelta. Quasi sempre il corteggiamento cominciava con lunghi, snervanti e soprattutto cauti appostamenti sotto la finestra o il balcone della ragazza. Gli appostamenti dovevano per forza essere cauti, perchè se il padre o i fratelli subodoravano qualcosa, non era infrequente che il temerario venisse diffidato, anche con la forza, dall'aggirarsi nei paraggi, e la poverina malmenata, in nome di un atavico diritto di proprietà che ogni maschio sentiva il dovere di esercitare sulle femmine della propria famiglia, o soltanto per difenderne l'onore, sulla cui definizione si è molto disquisito da parte degli studiosi di costume.
Oppure si svolgeva la domenica mattina, durante la messa delle undici, quella cantata. Si usava che i giovanotti, a piccoli gruppi, durante la funzione, piuttosto che star seduti ad ascoltare, passeggiavano su e giù per le navate laterali della chiesa, lanciando sguardi e ammiccamenti all'indirizzo delle ragazze, che stavano sedute, quasi sempre accanto alla madre o ad una vecchia zia, nella navata centrale. Quando scorgevano quella che a loro sembrava giusta, si piazzavano in posizione strategica e lanciavano l'attacco. Uno sguardo, due, tre, in modo sempre più insistente e diretto. I più intraprendenti facevano l'occhiolino. Poi pazientemente attendevano il riscontro. Ogni giovanotto sapeva bene che una ragazza seria le prime volte non si sarebbe fatta sorprendere a restituirgli lo sguardo, per non passare per civetta. O soltanto per paura. Per cui pregava l'amico di osservarne di sottecchi le reazioni.


-Chi dici, ti para ca talìa, ah?- chiedeva lo spasimante con trepidazione.
-Allivoti si, ma nun sugnu sicuru- rispondeva titubante l'amico.
-E tu talìa miegghiu- incalzava il poverino.

Quando, dopo tante domeniche, e dopo interminabili attese per intere serate sotto un balcone che non si apriva, la ragazza, con un cenno del capo o dello sguardo, finalmente lasciava intendere che la cosa si poteva fare, allora il ragazzo si faceva più audace e il suo corteggiamento diventava più esplicito: passava sempre più frequentemente sotto il balcone e lasciava intendere che era disposto anche a sfidare l'ira del padre e dei fratelli. Quannu i dui si vuonu, i tri nun s'azzuffinu.
Esistevano anche i matrimoni purtati, chiamati così perchè venivano combinati da vecchie paraninfe molto abili in queste faccende e attivissime in ogni paese, le antenate delle moderne marteflavi. Erano matrimoni basati certamente non sull'amore, che anzi spessissimo i due promessi sposi neppure si conoscevano, ma su piccole convenienze e piccoli calcoli. Iddu è unu travaddiaturi, serio, con tante proprietà, enfatizzavano le comari traffichine, facendo brillare davanti agli occhi della ragazza indecisa, e soprattutto davanti a quelli avidi dei genitori, il miraggio di un benessere che il più delle volte si rivelava poi, se non proprio inesistente, certamente inferiore a quello promesso. E idda? Lei, sempre a detta delle ruffiane, era certamente una che si poteva bere in un bicchiere d'acqua. Magari attempatella, certamente non bedda cchiassai do suli e da luna. Ma che importava? Erano pronte a giurare che era stata abituata fin da piccola ai lavori più duri, ed educata al rispetto e all'ubbidienza verso il marito. Magari era grassottella, con i fianchi sovrabbondanti. Tutta grazia di Dio, ammiccavano allora con una grassa risata carica di doppi sensi. Erano abilissime nel mettere in risalto le doti che maggiormante contavano nel povero mondo contadino di allora. E l'amore? Beh, Amuri e bruodu i chiàppiri... non si dice così? L'unica cosa che in fondo veramente conta tra due che si sposano è il rispetto reciproco. L'amore poteva sempre venire dopo; anzi, certamente sarebbe venuto, incalzavano, dall'alto della loro esperienza, le mature intermediarie. La cosa su cui erano pronte a giurare era comunque che quel matrimonio era stato deciso e preparato in Cielo. Matrimonia e viscuvati do cielu su calati, infatti.
Ma per quali vie, poi, e con quali chiavi, le paraninfe accedessero ai reconditi misteri del Cielo, questo proprio non mi è stato rivelato.
Personaggio importante in ogni matrimonio era u missaggieri, di solito un signore anziano, assennato, stimato e rispettato in società, possibilmente di ceto sociale superiore, che veniva incaricato dalla famiglia del giovane di fare il primo passo, come si diceva, presso il padre della ragazza. Il quale, a sua volta, cerimonioso, si dichiarava prima di tutto onoratissimo della visita di quell'ospite tanto illustre, quantu onuri nna me casa!; poi, dopo aver ripetutamente ostentato la propria sorpresa per quella richiesta tanto inattesa, chiedeva tempo per una risposta; per domandare alla figlia, diceva ipocritamente, se anche lei era disposta a sposare quel giovane, contro cui, e soprattutto contro la cui famiglia, lui non aveva niente da ridire, teneva a precisare; ma in realtà per prendere le informazioni.
Se, dopo una o due settimane, la risposta era affermativa, col messaggero si metteva in chiaro anche la parte economica della faccenda. Non si stilavano contratti veri e propri, almeno non ne stilavano quelli delle classi subalterne, ma la parola data davanti a lui era impegnativa più della carta bollata.
A quel punto si concordava la data per fare la  ricanuscenza, che consisteva in una visita che i genitori e i parenti stretti del giovane facevano a casa della ragazza, per conoscerne i familiari. In quella cerimonia la parte centrale della scena veniva ceduta alla mamma del giovane, presso la quale la timida e impacciatissima fanciulla doveva sforzarsi di suscitare l'impressione più favorevole. Dopo questo primo incontro il fidanzato non sempre veniva ancora ammesso a frequentare con regolarità la casa della fidanzata. Per poter cominciare a farlo egli doveva attendere che si facesse u singu, il fidanzamento ufficiale, che si celebrava poche settimane dopo, giusto il tempo dei preparativi, che erano lunghi e laboriosi. Fino ad allora ai due giovani si concedeva di parlarsi dal balcone, senza più la preoccupazione di essere sorpresi. Comunque da quel momento potevano formalmente considerarsi ziti.
U singu, come poi anche il matrimonio vero e proprio, che veniva celebrato quasi sempre verso la fine dell'estate successiva, nel mese di settembre, quando diminuivano i lavori nei campi, era una cerimonia corale. Per diversi giorni prima, infatti, tutti i parenti da zita partecipavano indaffaratissimi alla preparazione dei dolci per il trattenimento, mentre i parenti do zitu si occupavano di acquistare l'oru do singu.
Spessissimo tra le due famiglie si istaurava una sorta di tacita gara per prevalere sull'altra, una gara che quasi sempre risultava assai patetica, in quanto ciascuna di esse si sforzava di ostentare un'agiatezza che di fatto non aveva, o vantava parentele altolocate, che quasi sempre poi, si riducevano a qualche oscuro travet della pubblica amministrazione o ad un militare di bassissimo grado e rango.   
La sera del fidanzamento, in mezzo ai cori sempre più lunghi di oh!!! delle comari, la futura suocera, con sussiego e studiata lentezza, appendeva l'oru alla fidanzata, rossa in volto comu a paparina. I commenti d'ammirazione si sprecavano. A pararu comu a Sant'Aita, dicevano i suoi parenti, per lasciare intendere che i regali erano stati graditi, che la famiglia dello sposo non si era risparmiata e aveva fatto tutte le cose per bene, com'era giusto.
Un buon trattamento veniva giudicato dal numero e dall'abbondanza delle passate, dalla quantità di dolci, cioè, che alcuni giovanotti, naturalmente quelli più brillanti e di cumacca tra i parenti della fidanzata, già alticci di prima sera, facevano passare tra gli invitati, in un grande tabarè. In mezzo a un gran vociare di bambini, vassoi stracolmi di cassateddi, 'nfasciatieddi, nocatuli e amaretti, passavano davanti alle infinite mani stese degli invitati, seduti stretti stretti, uno accanto all'altro, nei sedili di fortuna che si ricavavano appoggiando a due sedie le tavole dei letti, disfatti per l'occasione. E tra una passata e l'altra venivano offerti bicchierini di un non meglio identificato rosoliu, un liquore fatto in casa con alcool e zucchero, ai quali venivano aggiunti essenze e coloranti diversi, i patriottici bianco, rosso e verde per lo più, per dare l'impressione che si trattasse di liquori sempre diversi. Ma, per quanto mi ricordo, il sapore mi sembrava sempre lo stesso.
Quelli che se lo potevano permettere chiamavano un'orchestrina, composta da musicanti raccogliticci, perdigiorno senza nè arte nè parte, i quali, dietro compenso di un pasto o solo di una buona bevuta, riuscivano a mettere insieme un repertorio di vecchie canzoni.


-Vossa muzzica, cummà!
-Vossa muzzica, cumpà!

Al rito da muzzicata non si poteva sfuggire, se non si voleva dare l'impressione di essere schizzinosi, cca nasca additta. Nulla poteva nuocere di più ai buoni rapporti che con il matrimonio si istauravano tra due parentele, che il mostrare di sentirsi superiori, di schifiàrisi del compare o della comare.
Seduti per la prima volta uno accanto all'altra, al centro di un'attenzione che avrebbero volentieri schivato, i due ziti, confusi e inebetiti, finalmente si tenevano per mano; e mentre il vocìo, col passare del tempo e delle passate di rosolio, diventava concitazione e frastuono, essi timidamente cercavano di ascoltare le segrete emozioni del cuore, che non riuscivano, e forse mai sarebbero riuscite, a diventare parole.
Il matrimonio, soprattutto tra le famiglie contadine, di solito, come dicevo, si celebrava verso la fine dell'estate. Qualcuno in primavera, ad aprile. Mai a maggio, a zita maiulina nun si oda a vistina.  Quasi sempre di sabato, di sabitu a Madonna ci proia l'abitu. Mai di lunedì, di luni si nni va a ruzzuluni.
I parenti dello sposo aspettavano in chiesa; la sposa, in abito bianco, arrivava dopo, in braccio al padre e seguita dal numeroso corteo dei suoi parenti. I balconi e le finestre che si affacciavano sulle strette viuzze dove passava il corteo venivano addobbate con le coltri e i lenzuoli ricamati, come per la processione del Corpus Domini. Alla fine della cerimonia in chiesa, un corteo ancor più numeroso tornava nella casa della sposa per il trattenimento, che era in tutto simile a quello del fidanzamento.
C'era una cosa, ai tempi della mia infanzia, che più viva mi torna alla mente, soprattutto per il gran senso di tristezza che mi metteva dentro già allora; ed anche ora che ne scrivo provo uno strana ed accorata malinconia. La guerra era finita da poco e fame in giro ce n'era tanta. Ricordo che c'era sempre un gran nugolo di ragazzini malvestiti che seguiva da presso ogni corteo nuziale e che poi si assiepava vociante all'uscio della casa della sposa; e ricordo che qualcuno da un balcone, dopo che tutti gli invitati erano entrati in casa, buttava loro dei confetti e delle monetine. Immagino che fosse un gesto per augurare ricchezza e benessere ai nuovi sposi. Ma a me quei bambini ai quali si buttavano delle monetine facevano una gran pena.
Non si usava che gli sposi andassero in viaggio di nozze. A tarda sera, finiti i festeggiamenti, i parenti più prossimi li accompagnavano nella nuova casa. Verso mezzanotte gli amici più intimi gli portavano la serenata sotto casa. Poi, per tutta la settimana che seguiva, gli sposi, ma soprattutto la sposa, non uscivano di casa. Solo all'otti jorna, all'ottavo giorno, gli sposi, lui col vestito del matrimonio e lei con quello appunto di l'otti jorna, abitino di seta e spolverino nero, andavano a fare visita a tutto il parentado.
Mentalità e cultura, usanze e tradizioni, credenze e superstizioni, tutto concorreva a conferire ai comportamenti legati al matrimonio una sorta di sacralità, una ritualità fatta di innumerevoli regole non scritte, ma non per questo meno ferree e vincolanti, difficilmente riscontrabili in altre circostanze della vita. Ogni matrimonio finiva per coinvolgere praticamente l'intero parentado dei due fidanzati; ognuna delle due famiglie vi spendeva la propria immagine pubblica, il proprio peso economico, il proprio onore.

Matrimonia e viscuvati do cielu su calati.
Nun si pìgghinu se nun s'arrisimìgghinu.
Cu si marita nno quartieri viva nno bicchieri.
Quannu ta maritari a matri a taliàri.
Cu nascia bedda nascia maritata.
Dui bieddi nno 'ncuscinu 'un puonu dormiri.
Cu avi a muggheri bedda sempri canta,
cu avi dinari picca sempri cunta.
Fimmina cucinera pigghitìlla ppì muggheri.
Muggheri sapienti, a tavula nun truovi nenti. 
Biddizzi a tavula nun si nni mettinu.
Cu si marita sta cuntentu un juornu,
cu ammazza un puorcu sta cuntentu un annu.
Di luni si nni và a ruzzuluni.
Di marti nè si spusa nè si parta.
Di sabitu a Madonna ti pròia l'abitu.
A zita maiulina nun si oda a vistina.
All'annu maritatu, o malatu o carzaratu.
Amaru cu si marita: si nni va 'ngalera a vita.
Amaru cu si fa supraniàri,
lustru di paradisu nu nni vida.
Nun si loda a jurnata se nun scura,
nè si loda a muggheri se nun mora.
A cu puozzu e a cu nun puozzu,
a me muggheri sempri a puozzu.
Cientu addi a carriari e na addina a scaliari...
Amaru u puddaru unni canta a addina.
Unni a addina canta e u addu taci,
chidda è casa ca nun c'è paci.
Paci intra e guerra fori.
I parienti do maritu su amari comu acitu,
i parienti da muggheri su duci comu o meli.
I scarpi stritti su comu e parienti:
cchiù stritti stanu e cchiù mali fanu.
Sògiri e nori ittàtili fori!
'Nnall'anta 'a paranta amaru cu i ita ci chianta.
Canuscia l'uomo to cco vierzu so.
Ogni lignu avi u so fumu.
Addu d'aruoi è trìulu di casa.
Figghi nichi peni nichi, figghi ranni peni ranni.
'Nzocchi simini arricuogghi.
Tali patri tali figghiu.
Da rosa nascia a spina e da spina nascia a rosa.
U lignu s'addizza quannu è virdi.
Puorcu e figghiuolu comu u nsigni u truovi.
'Nzocchi fa a matri o cufularu fa a figghia o fumazzaru.
A mamma è l'arma, cu ha perda nun a uadagna.
I figghi de atti acchiappinu surgi.
Figghia nna fascia e tila nna cascia.
Ogni figghiu scavarieddu a so ma ci para bieddu.
Se ti nascia un figghiu bufulutu, ammazzilu e vattinni carzaratu.
Un patri a cientu figghi ci duna a mangiari,
ma cientu figghi o 'mpatri no.
L'arbulu pecca e a rama arriciva.
A corda ruppa ruppa, a sgruppa cu nun ci curpa.
Niputi cuorpi di cuti.
Nun c'è matrimuoniu senza chiantu
e nun c'è funerali senza risu.

 

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